Ieri si è spento un fotografo italiano che aveva costruito la propria notorietà professionale attraverso l'iperbole comunicativa dell'immagine violenta. Una strategia propalativa che mi ricordava, nella differente forma espressiva della narrazione, alcune opere di Curzio Malaparte, autore incline a creare nel lettore il sussulto dello stupore. La tecnica fotografica dello scomparso purtroppo generava effetti assai più laceranti di quelli prodotti da una narrazione sensazionalistica, che comunque richiedeva la mediazione elaborativa del lettore. In altri termini la violenza dell'immagine può sortire effetti psicologici destabilizzanti e produrre disagio se non sofferenza collettiva nella sua visione. Vi è dunque da chiedersi se la libertà di diffusione di immagini sconvolgenti quando non traumatizzanti possa rientrare nei parametri relazionali accettabili di una società civile, oppure costituisca espressione ed abuso violento di una malintesa concezione di libertà. Per il resto parce sepulto.
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