Prof. Vittorio Bottoli |
Che ho a che fare io con gli schiavi?
Si chiedeva Piero Gobetti, esule in Francia per non piegarsi alla dittatura fascista.
Che ho a che fare io con i sudditi?
Si deve chiedere oggi il cittadino spogliato della sua originaria sovranità e privato di fondamentali diritti.
La risposta a questa domanda è contenuta in questo saggio, maturato in oltre un decennio di esperienza, di studio, di confronti ed analisi ai più alti livelli.
Essa non è stata facile, e anzi particolarmente sofferta. In particolar modo per chi ha creduto, in tempi non sospetti, in determinati valori, tardivamente riscoperti e rivalutati oggi, a tempo oramai scaduto. Per tradizione familiare e per mia libera scelta. Perché ancora oggi conservo, come una reliquia, il medagliere del nonno, ufficiale di carriera. Perché il mio nome, essendo nato il 4 novembre, mi è stato dato nel ricordo della Vittoria nella grande guerra, e quel giorno tutte le città si addobbavano con il tricolore. Perché, ancora adolescente, sventolavo la nostra bandiera, nelle manifestazioni studentesche, per rivendicare l’italianità di Trieste. Perché orgoglioso del mio servizio militare nel corpo degli Alpini, e di quello di mio figlio nei Parà della Folgore. Perché, ormai adulto, mi impegnai politicamente nell’unico partito che declinava il termine Patria in luogo di quello – assai più diffuso – di Paese. Ma oggi quella Patria è scomparsa, sostituita da uno Stato che si è impadronito arbitrariamente della nostra sovranità, e non più in grado di autogenerarsi.
Oggi, guarito giorno per giorno da quella meravigliosa malattia che si chiama giovinezza, sono convinto che, prima ancora che un diritto, sia un dovere riconquistare quella libertà che ci è stata sottratta, e che può essere garantita solo con una radicale riforma istituzionale.
La lotta per la libertà ha da sempre caratterizzato la storia dell’uomo, in quanto la condizione di libertà è innata alla natura umana.
L’uomo è infatti per sua natura dotato di intelligenza. Questa particolare qualità gli ha permesso di diventare il “primate”, cioè colui che esercita la propria supremazia, il potere su tutti gli altri esseri animati, servendosene e alimentandosene. E poiché l’uomo ha da sempre usato tale sovranità egli è consapevole di tale stato, tanto da non poter tollerare alcuna forma di soggezione e di servitù da parte dei propri simili. Rinunciare alla propria libertà significa infatti rinunciare alla propria qualità di uomo. Naturalmente questo stato di sovranità, nei rapporti con i propri simili, non può essere assoluto, come quello di Robinson nella sua isola, fintanto che ne fu il solo abitante. L’uomo infatti, dovendo vivere ed operare in un contesto sociale ordinato, si è dato delle regole. In particolare, nelle moderne democrazie, ha demandato ad altri il potere di legiferare e di governare, ma sempre senza rinunciare alla propria sovranità. Il governo e le istituzioni sono quindi degli organi delegati e strumentali in quanto traggono la loro legittimazione dalla delega ricevuta dal cittadino sovrano, di cui costituiscono lo strumento per soddisfare i suoi bisogni essenziali. Quando ciò non avvenga, quando il potere delegato inverte i ruoli facendosi sovrano, e riduce il popolo a strumento per la sua conservazione, il popolo ha il diritto di ribellarsi contro questa usurpazione del potere. Tale lotta ha una sua tragica peculiarità: non ha termine, non si esaurisce una volta raggiunti i fini che si è proposta. È una guerra continua che ci riporta alla mente il terribile monito di Platone: “solo i morti hanno visto la fine della guerra”. Sempre infatti vi saranno individui e gruppi che, per cupidigia di ricchezze, per smania di potere, per l’istinto ancestrale di comandare, impongono ai propri simili uno stato di sudditanza, privandoli della loro naturale sovranità. Limitando questa riflessione al periodo moderno, basti ricordare che con la fine dei regimi assolutistici e l’affermarsi dei principi liberali e delle democrazie parlamentari, si pensava che l’uomo fosse finalmente arrivato alla meta, ad una nuova età dell’oro. Ma contestualmente a questa trasformazione epocale già allora, come documenteremo, i più sensibili ed attenti cultori della scienza politica, uomini come Tocqueville, John Stuart Mill, Benjamin Constant, Henry David Thoreau, mettevano in guardia sui pericoli di possibili involuzioni negative. Pensavano cioè che gli Stati nazionali, a causa della loro dimensione, difficilmente potessero garantire l’esercizio di quei diritti così faticosamente conquistati. Se il cittadino, scrivevano, non può più esercitare direttamente i propri diritti politici come avveniva un tempo nelle città di Atene e Roma. Se egli non vuole o non è in grado di effettuare un doveroso e continuo controllo sui rappresentanti eletti. Se questi, privi di ogni controllo, si ricoprono di privilegi che li trasformano in casta, tendono a sovvertire i ruoli trasformando i cittadini da sovrani a sudditi, inconsci strumenti per il loro potere.
Purtroppo furono facili profeti.
Nell’arco di pochi anni dalla loro costituzione, quelle democrazie liberali nate per tutelare e garantire i diritti, ne sacrificarono quello più pregnante, il diritto alla vita, mandando alla morte milioni e milioni di esseri umani nel primo conflitto mondiale. I ragazzi di Francia, Inghilterra, Italia, Austria e Germania – per limitarci all’ambito dell’attuale Unione europea - vennero costretti a scannarsi reciprocamente dagli ordini sciagurati dei loro governanti.
Poi, pochi anni dopo, alcuni di essi si trasformarono da Stati liberali in dittature che negarono e oppressero la maggior parte dei diritti civili e politici. In particolare una di queste, pur incredibilmente cresciuta e sviluppatasi in quella Germania che aveva espresso i più grandi filosofi, letterati, giuristi e musicisti del tempo, fu la causa scatenante di un altro terrificante conflitto. E qui vennero falcidiati a milioni non solo i giovani combattenti ma, in pari misura, addirittura le popolazioni civili. Queste recenti e immani tragedie hanno un denominatore comune: la perdita di sovranità dei singoli cittadini, e quindi del popolo che essi compongono, ad opera di governanti che se ne appropriarono arbitrariamente. Fu una evidente “usurpazione del potere”, in quanto la facoltà di governare, pur concessa legittimamente, venne da questi usata in modo abusivo. Ciò confermò clamorosamente le previsioni degli autori appena citati: l’abdicazione alla propria sovranità da parte dei cittadini, nei confronti dei loro governanti, trasforma un popolo in un docile gregge da tosare, in una ubbidiente mandria da portare al macello. Chi si riconosca, per studio o per istinto, nella libertà sa quindi che la stessa è sempre minacciata e che quindi diventa un dovere, prima ancora che un diritto, porre in essere azioni e comportamenti che scongiurino tale pericolo.
Oggi nel nostro paese, riconquistato faticosamente alla libertà dopo un’usurpazione durata un ventennio, nuovamente, e da tempo, abbiamo superato la soglia del pericolo, vivendo in una preoccupante e desolante crisi dei diritti.
E come accadde con i grandi pensatori dell’Ottocento anche nel nostro paese, a distanza di pochi anni dall’approvazione della Carta costituzionale, altri eminenti studiosi misero in guardia su una pericolosa deriva che evidenziava un diffuso malessere sociale, un progressivo distacco tra amministrati e classe politica. A loro è opportuno riferirsi per analizzare le cause e le responsabilità che hanno provocato l’inizio di una crisi, oggi aggravatasi al punto da rendere possibile una vera e propria rivolta sociale, e per individuare i possibili rimedi, che debbono tenere in debita considerazione il tema della legittimità e dell’attualità di un diritto del cittadino alla resistenza, stante la violazione e la discriminazione riguardo alcuni dei diritti fondamentali, da parte dello Stato. Questo diritto di resistenza si può articolare in diverse fattispecie, quali l’autodeterminazione, la disobbedienza civile, sino a comprendere il diritto alla secessione.
Vittorio BOTTOLI